Minas Halaj: “Siamo fiori che crescono con le emozioni”
di Marisa Iacopino –
Raffigurazioni di volti semicelati dietro cornucopie floreali policrome, decori di farfalle variopinte. La fragilità dell’umano rivisitata dall’arte, ma anche un pensiero dicotomico in cui la bellezza è strumento di seduzione e arma che può opprimere.
E’ impossibile non riconoscere nei soggetti dipinti il suo pennello. Lui è Minas Halaj, giovane artista armeno nato a Yerevan, una delle città più antiche al mondo.
“Ho studiato al San Francisco Art Institute of Fine Art. Dopo tanti anni, ricercando e sperimentando materiali diversi, ho guardato alla tecnica del collage. Da allora me mi sono innamorato, perché apre a un’ampia varietà di materiali e raggiunge superfici e trame. Se la formazione scolastica è essenziale, e le università ti danno il primo calcio verso il mondo, tuttavia io credo che impariamo ogni singolo giorno, opera dopo opera, educandoci fuori dalle istituzioni fino alla fine del nostro viaggio”.
Sei nato e cresciuto a Yerevan, in una famiglia che respirava arte, essendo figlio del pittore armeno Samuel Halaj. Cosa c’è nei tuoi lavori di tuo padre, e per cosa si discostano da lui?
“Nei miei primi lavori, ho tratto molta ispirazione dalle opere di mio padre. L’ho sempre visto lavorare per ore, dipingendo nel suo studio. È stato il mio primo educatore. Mi ha insegnato con il suo duro lavoro a essere paziente, impegnarmi in tutto ciò che faccio, essere ambizioso, e concentrarmi sulle mie idee. Questo è il principio dell’essere un artista e buon uomo. Fin dai primi passi, mi ha educato a trovare il mio alfabeto in arte. Ciò significa sviluppare, creare il proprio stile di pensiero. Da quel duro rodaggio, sono passati tanti anni”.
Nel 2002, a 21 anni, hai lasciato la terra natale per trasferirti in California. Come fa un natio d’Armenia a mettere radici in un paesaggio postindustriale ed effimero come Los Angeles?
“E’ stato difficile mentalmente e fisicamente lasciare la mia patria senza amici e la famiglia. Ma ho guardato le cose da un grandangolo, quindi il paesaggio di Los Angeles mi ha accolto e ha promesso molte tentazioni e opportunità del post-industrialismo. Mi ha fatto cominciare a pensare in un’atmosfera più ampia. Questo ti apre alla combinazione di nuove scritture artistiche”.
Con “Floreal Mind” hai partecipato a una mostra collettiva. Le inserzioni floreali sui volti dei ritratti ti hanno caratterizzato fin dall’inizio del tuo percorso americano. Cosa volevi esprimere con questi dipinti?
“Nel 2014 ho viaggiato in Armenia, poi tornando a Los Angeles mi è venuta in mente la serie “Floral Minds”. L’idea è di confrontare due stili di vita e trovare un centro contenente entrambi. A Los Angeles sembra di essere in una grande giungla di cemento, dove si trovano persone separate dalla natura che cercano di nascondere le loro personalità e i loro volti. Tuttavia, c’è un fiore che vive dentro di noi, che cresce con le nostre emozioni. L’obiettivo principale è mostrare alle persone quali fiori sono. Che fiore sei?”.
Se i fiori, come tu dici, sono un accenno di paradiso, allora il paradiso lo possiamo cercare dentro di noi. Ma cosa si può fare per non lasciar appassire il fiore che ci abita internamente?
“Come ci prendiamo cura di un fiore naturale, allo stesso modo dobbiamo prenderci cura del fiore che vive in noi, lasciare che cresca. Noi tutti annusiamo fiori. Regaliamo fiori alla persona amata. Nasciamo con i fiori. Moriamo con i fiori. La metamorfosi della vita sono i fiori. ‘La chiave del paradiso è nei fiori’”.
Le tue opere sono frutto di tecniche miste, oli, fiori, animali, tessuto, legno, oggetti riciclati, bottoni. Citando dalle tue parole: “Ci sono voluti molti anni per dimenticare ciò che avevo imparato nella pittura classica e fare cose con le mie mani che infrangevano tutte le regole”. Dunque, per crescere e diventare se stessi occorre prima introiettare le eredità di chi ci ha preceduti e poi distruggerle?
“Solo così puoi trovare te stesso. Funziona con il conflitto. Per prima cosa, devi raccogliere informazioni e tecniche diverse, cercando di interpretare i tuoi artisti preferiti. Io credo che ogni artista abbia bisogno di passare attraverso chi lo ha preceduto per trovare il suo punto fermo e quindi rifiutare il passato. In questo processo, scopri come sei”.
Tuo padre era contento che intraprendessi la strada artistica?
“Mio padre cercava di capire se davvero volessi essere un artista, o se fosse l’attività favorita di un bambino. Il duro lavoro ha dimostrato che era quello che volevo fare nella vita”.
Hai tenuto mostre in tutto il mondo, negli States, soprattutto, ma anche nel Regno Unito, in Austria. Nel tuo paese natale, l’Armenia, sei tornato come artista riconosciuto e apprezzato?
“Con orgoglio, posso dire che in Armenia ho riconoscimento, ma non ho mai fatto mostre nella mia madrepatria. Pertanto, il prossimo passo sarà quello di creare un murale gigante nel cuore di Yerevan quest’estate. Sono sbocciato negli Stati Uniti, quindi è chiaro che sia più conosciuto qui”.
Vuoi salutarci con un tuo pensiero al futuro?
“Il futuro è troppo astratto. Vorrei però dire: siamo innatamente connessi alla natura, ma c’è un conflitto interiore che ci spinge verso un mondo più vasto e complicato. Dobbiamo quindi essere onesti con noi stessi e affinare la vista. Amare. Splendere. Regalarci fiori l’un l’altro”.