04/18/2024
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Paolo Ruffini: “Vi racconto chi mi ha insegnato la felicità”

Lo spettacolo che ha portato in giro per l’Italia assieme agli attori della Compagnia Mayor Von Frinzius è stato un vero successo tanto da far registrare il tutto esaurito ad ogni serata. Da questa esperienza, il popolare conduttore di “Colorado” Paolo Ruffini ha deciso di scrivere un libro edito da Mondadori, “La sindrome di Up” in cui ha raccolto delle riflessioni sulla disabilità e sulla felicità.

di Giulia Bertollini

Una testimonianza importante in cui si riesce a cogliere il valore della normalità. Perché come racconta Paolo basta guardarsi intorno per accorgersi che il sorriso ormai sembra diventata una chimera. In questa piacevole intervista, rilasciata a margine della presentazione del libro, Paolo ci racconta qualcosa in più sul talento, la felicità e la normalità oltre a svelarci inediti dettagli sulla sua carriera.

Paolo, uno spettacolo teatrale, un documentario e ora un libro. Raccontaci come è nata la tua collaborazione con la compagnia Mayor Von Frinzius.

“Alcuni anni fa ho iniziato a collaborare con la Compagnia Mayor Von Frinzius, uno straordinario esempio di teatro integrato, diretta da Lamberto Giannini, che ha una storia ventennale e ospita al suo interno oltre 90 attori, metà dei quali con disabilità. Lamberto è partito da una filosofia molto semplice: tutti possiamo essere potenzialmente degli attori in quanto abbiamo un corpo e un’emotività. Proprio perché ha dimostrato di essere a favore dell’inclusione ha iniziato a promuovere dei laboratori. Di qui sono accorse tante persone con disabilità. Anche io sono rimasto colpito dai suoi spettacoli tanto che poi ho deciso di portare in teatro questa esperienza”.

Non saranno mancate le critiche.

“Assolutamente. Infatti all’inizio mi prendevano in giro dandomi anche del pazzo. Con un po’ di incoscienza e di leggerezza sono riuscito a realizzare poi un bellissimo spettacolo teatrale. Ho sempre l’impressione che in Italia se di mestiere fai lo scemo sei obbligato ad essere scemo”.

Cosa te lo fa pensare?

“Ti racconto questo episodio. Qualche anno fa andai a presentare un libro a Milano. Appena arrivato, mi avvisarono che il pubblico era già presente. Dissi loro che si poteva iniziare. La risposta fu spiazzante: attendevano l’autore. Erano convinti infatti che dovesse intervenire Paolo Ruffini, ora direttore di TV2000. Ancora oggi per me rappresenta un cortocircuito meraviglioso pensare di passare dalla conduzione di Colorado alla presentazione di un libro in cui si affrontano temi delicati come la disabilità”.

Eppure la critica giornalistica non è sempre stata tenera nei tuoi confronti.

“L’alto e il basso rappresentano un paradosso tipico dell’intelligenza italiana per distinguere le persone colte da quelle che non lo sono. Ho sempre partecipato ai cine panettoni e di questo me ne vanto. Anzi, mi mancano tremendamente. Anche nella volgarità c’è cultura e libertà creativa. In nome della morale, ora siamo abituati ad usare le stesse parole. Se il documentario che ho realizzato fosse stato firmato da un’altra persona sarebbe stato osannato e acclamato. Ho sofferto molto in passato il pregiudizio. Oggi invece sono orgoglioso di essere riconosciuto come un fabbricatore di cazzate. Secondo alcuni giornalisti dovrei smettere di fare questo mestiere perché reputano il mio intrattenimento di bassa lega”.

Hai parlato di cine panettoni. Come mai non se ne fanno più?

“Perché hanno vinto i giornalisti e un certo tipo di pubblico moraleggiante che si sente più intelligente a vedere un film senza parolacce”.

In che modo hai selezionato le diverse esperienze che poi hai inserito nel libro?

“Ci sono delle verità che ho cercato di desumere da questa esperienza oltre a brevi interviste che ho realizzato ai ragazzi. Ho posto loro delle domande semplici come ‘che cosa è l’amore?’ o ‘che cosa è la vita?’. Un ragazzo alla domanda ‘com’è Dio?’ mi ha sorpreso rispondendomi ‘Dio è un po’ come me e un po’ come te’. La confidenza con la felicità che questi ragazzi hanno mi ha aperto un mondo. Pur non avendo un background filosofico approfondito, mi piacerebbe che questa esperienza potesse valere come un insegnamento”.

Scrivendo questo libro, quali sono le cose di te che hai capito?

“Non nego che questo libro mi ha regalato tanta felicità ma anche un po’ di dolore. E’ stato un momento di grande introspezione. Une persona felice se la gode la felicità mentre chi decide di scrivere la felicità è perché magari sta attraversando un momento delicato. Rileggendo il libro mi sono accorto di quanto egoismo ci sia in questa operazione. Quando sono con questi ragazzi mi accorgo di stare meglio. Sono io il primo a trarne beneficio”.

Ciò che più colpisce è il fatto che ci siamo disabituati al contatto. Ci fa paura anche stringerci la mano. Invece, questi ragazzi amano l’approccio fisico. All’inizio, eri imbarazzato o è qualcosa che fa parte di te? 

“Fa assolutamente parte di me. Non ero più abituato a dedicare del tempo agli altri perché la frenesia della vita inevitabilmente ti fa cambiare direzione. E invece quando sto con loro mi dimentico anche del cellulare. Questi ragazzi conoscono il valore della fiducia e soprattutto non sono mai in malafede”.

Che cos’è per te la felicità?

“La felicità è qualcosa che ci appartiene, che abbiamo dentro di noi. L’importante è non lasciarsi travolgere dalle contingenze di tutti i giorni. Alcuni mi chiedono se ci sia una differenza tra serenità e felicità. Ebbene, la serenità è qualcosa che se la pettini bene può trasformarsi in felicità. La felicità per esempio è quando mi godo Roma a Ferragosto, quando vado presto al cinema, quando mio papà mi fa un complimento e quando mi compiaccio di qualcosa che ho pensato. E’ un moto dell’anima che ti spinge ad essere meglio di quanto tu possa essere”.

Ogni giorno però aprendo il giornale veniamo investiti da notizie negative. Qual è secondo te il ruolo dell’informazione rispetto alla percezione della felicità?

“Credo che il ruolo dell’informazione sia di fare la cronaca di quello che accade senza nascondere però le notizie positive. Secondo me, il giornale perfetto è quello che mischia le buone notizie con quelle cattive. Ci stiamo abituando ad una serie di parole come guerra, crisi, conflitto senza accogliere come normali termini quali meraviglia, bontà, accoglienza e inclusione. Nella misura in cui il tessuto sociale recepisce come normale il negativo inevitabilmente sarà una gara a chi lo è di più”.

Su quale comodino vorresti vedere questo libro?

“Mi piacerebbe che venisse letto da quelle persone che vivono una situazione complessa e difficile ma anche da quella gente che continua ad avere pregiudizi. Vorrei avere l’illusione di vivere in un posto un po’ più sociale e meno social”.

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