04/28/2024
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Cosimo Cinieri: “Recitare è essere quello che fai”

di Paolo Paolacci

Ho provato a leggere la tua biografia, davvero grande: puoi iniziare tu a dirci come è nata la passione e la vita teatrale? Te ne sei accorto di recitare o è proprio così che sei?

Avevo 12 anni. Studiavo a casa ad alta voce l’Iliade o l’Odissea, non ricordo. Un mio cugino più grande, quasi architetto, bussò alla mia porta e mi disse: “Ma tu capisci quello che dici?” Io, sorpreso: “Perché?” Lui: “Perché leggi i versi benissimo”. Questo lo ricordai dopo vari anni. A 16 anni organizzammo uno spettacolo, una ‘rivista’. Una scenetta: Tre mogli con cappotto e borsa vanno a lavorare al Parlamento; i figli, tra cui io, con camicione e cuffia, in carrozzina; i padri, in grembiule da casalinga. Canzonette di quel tempo e testi riscritti alla maniera del Quartetto Cetra. Appena inizia la scenetta, il truccatore mi chiama dalla quinta e mi fa vedere un barattolo di borotalco Zignago. Capisco, esco dalla carrozzina, e acchiappo l’arma. Torno vicino a papà e mamma e appena aprono la bocca per cantare, una nuvola di borotalco li fa sparire. E da lì in poi lo sketch divenne la ‘scena del Borotalco’. Tempi precisi, risate a morire e applausi scroscianti. Negli occhi degli attori: odio. In me, gioia di giocare. Ricreando lì per lì senza rovinare. Mi sentii bene! Io non recito. Ho imparato la tecnica ma senza esibirla. Essere quello che fai.

Come senti di essere  cresciuto con la vicinanza di Carmelo Bene, Alessandro Fersen  e Carlo Quartucci?

Tre incontri diversi. Fersen mi ha insegnato a non recitare, a cercare dentro di te la ‘parte’ con cui giocare. Non basta una bella voce stentorea, il testo devi cercarlo dentro la tua esperienza. Esercizi di improvvisazione, la memoria emotiva, l’osservazione della vita sono gli strumenti dell’attore. Carlo Quartucci mi ha avvicinato al clown. In “Beckett” si recitava con il corpo, si cercavano voci assolutamente espressive e non naturalistiche; tutto ritmo, tutta musica vocale, tecnica esterna ma non esteriore. Per esempio in “Aspettando Godot”, Vladimiro era una linea blu, Estragone una palla gialla, Lucky era bianco, curvo, trascinato al guinzaglio da Pozzo, un gigante rosso senza capelli. Si può emozionare il pubblico anche così. Di quell’esperienza rimane “Atto senza parole”  in dvd con Leo De Berardinis e me, la regia di Carlo Di Carlo; Premio speciale della Giuria al Festival di Tours 1967. Carmelo Bene: un incontro sul set di “Storie dell’anno Mille” di Franco Indovina. Un castello, un salone adattato a gran camerino per gli attori. Un incontro etnico: Io sono Carmelo. Io sono Cosimo. Incontro etnico, salentino, estrema Puglia, Magna Grecia.  Poi andai a vedere un suo spettacolo e rimasi incantato. Lui venne a vedere, al Beat 72 il mio “Onan “(1968, mio primo spettacolo d’autore). Venne in camerino: “Finalmente c’è un altro attore in Italia”. Su quel ricordo mi chiamò a settembre del ’74 per “Sade”. Non riusciva a trovare il padrone. Il debutto sarebbe stato a Milano dopo 20 giorni. Gli chiesi 48 ore. Non voleva. Insistetti. Accettò. Al Teatro San Genesio, a sera tarda, il terzo giorno ci incontrammo. Mi fece vedere un paio di scene. Poi salimmo in palcoscenico io e lui: un po’ improvvisando, un po’ capendoci in piena libertà, ci divertimmo molto. Debutto a Milano: scandalo. A Roma trionfo. Alla fine Parigi, con grande scandalo delle femministe. Spettacolo interrotto con uova, farina e verdura. Il giorno dopo, pubblico seduto per terra. Beccai un abbraccio commosso di Klossowski con un suo indimenticabile: Merveilleux! Poi tanta radio in Rai, quindi Otello. La scintilla fu la mia intuizione del disonore del Moro giocato sulla cancellazione del trucco nero dal suo volto. 5 Premi UBU compreso il mio Jago. Nelle sue memorie l’ha dimenticato. Ma Carmelo era Carmelo e basta.

Festival dei Due Mondi di Spoleto in cui hai recitato due volte: che cosa ti ricorda e che cosa presentavi?

Intanto a Spoleto sono andato tre volte. Uno stage con Lee Strasberg, appena diplomato. Con Fersen: “Le diavolerie”; protagonista di quattro episodi su cinque. E poi al Teatro romano nacque “Canzoniere Italiano”, poesia in concerto da F. d’Assisi a Pasolini con “La Banda” dell’Arma dei Carabinieri. Un sorprendente trionfo, ripetuto negli anni in Italia e all’estero. Spettacolo che ha consolidato una delle nostre tre linee di ricerca, mia e di Irma Immacolata Palazzo, la ‘teatralizzazione della poesia’.

Hai lavorato tra gli altri con Massimo Troisi, Luigi Magni, ed Edoardo Winspeare : ci dici cosa e quale impressione hanno rilasciato su di te?

Troisi un artista; era quasi imbarazzato di farmi la regia. Luigi Magni: grande umanità e conoscenza profonda di quello che faceva. Il piacere di raccontare. Winspeare: al battesimo. Artigianato europeo nel Salento. Lingue di mezzo mondo per raccontare la nostra terra. Lì ho ritrovato le mie radici, piedi nudi sulla terra, il dialetto ricostruito, la voce nasale dei miei antenati. Winspeare, un nome straniero, con un cuore nel Mediterraneo.

Perché nel 1968 hai sostenuto alla Mostra del Cinema di Venezia, il film “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene? A ripensarci oggi, che faresti?

Le stesse cose. Avevamo 30 anni, ci siamo scatenati e divertiti al di là di qualsiasi vergogna. Un gran teatro a puntate sera per sera, fino alla premiazione, circondati da poliziotti. Dei compagni di quell’evento non è rimasto più nessuno. Mi hanno lasciato solo. Ma io, già allora, non bevevo più. La televisione anche qui tantissima: “Il padre della sposa” e la quinta serie di “Un medico in famiglia” entrambe con Lino Banfi; Vento di ponente con Serena Autieri  ed Enrico Mutti; “Gente di mare” con Vanessa Gravina ; quinta serie della fiction “RI: Delitti imperfetti”; e poi “Carabinieri” e “Italia che vai”. Cosa rimane? Cambi solo ruolo o è proprio un altro modo di recitare quello televisivo, rispetto a teatro e cinema? La tecnica è un po’ diversa, ma il gioco è gioco.

E poi la pubblicità! Per la Balocco. Ce la puoi ricordare? Hai partecipato anche al soggetto?

Ancora oggi mi salutano con la frase del signor Balocco: “Fate i buoni!”. Frase che inventai sul set, poiché sul copione c’era: Siate buoni. Fu lo slogan vincente che ancora usano, anche in mia assenza.

La poesia. Che cos’è la poesia per te? Sulla tua recitazione Elio Pecora ha definito la tua esecuzione: “una voce che è insieme fiato pronuncia e anima”. Che è il concetto ripreso da Roland Barthes. E’ questo il concetto di teatralizzazione della poesia?  E perché?

Ho già detto che la poesia era incorporata dentro di me fin da ragazzo. Poi le maestre mi hanno insegnato dizione, fonetica, ecc. E con Fersen ho messo in piedi i primi recital di poesia. I poeti sono i sentimenti, le emozioni, la vita. Un contadino A, in un castello del Salento, prima di Canzoniere Italiano chiede a un suo amico B: Ce fanno stasera? B: A puesia! A: La nuestra? B: No, l’italiana. A: Ah. Alla fine dello spettacolo. B: T’ha piaciuto? A (con grande entusiasmo): Multissimo! B: E tu hai capito niente? A (soddisfatto): niente! Ognuno sa cos’è poesia.

Premi: Ubu, 1978/79 come Migliore attore non protagonista, Jago nell’Otello a regia di Carmelo Bene; Biglietto d’oro a Taormina Arte nel 1985 con “Cosimo Cinieri è/o Macbeth di William Shakespeare” con la tua regia e Irma Immacolata Palazzo con la motivazione “per il suo indiscutibile valore artistico”; Sulmonacinema Film Festival nel 1996 come migliore attore protagonista in Pizzicata di E. Winspeare. Che valore ha un premio un riconoscimento per te e quanto carica per la prossima volta?

Qualcuno l’hai dimenticato. Le medaglie e le coppe le venderò intorno alla mia bara.

“Figlio della Terra d’Otranto capace di percorrere le strade parallele della cultura e della ricerca della stessa, donando all’arte italiana profondi segni di intuito e genialità artistica”.  Ci dici questa motivazione, di quale premio si tratta e cosa significa essere figlio della Terra d’Otranto?

Cosimo viene da Kósmios “ornato, armonico” e anche “riflessivo, ponderato”, la radice etimologica è la stessa di “cosmo” e Cinieri da Kiunoros “guardiano di cani”, ovvero: capocomico per destino.

E ancora premi di qualità :nel 2009  “La Manovella d’oro” come Migliore attore nel cortometraggio pluripremiato “I passi dell’anima” di Matteo Gallante: di che storia si tratta? Ha un titolo così bello e intimista …

Una breve storia semplice e delicata di un sacerdote nel tragitto da casa alla chiesa. Bravo il giovane regista.

Quindi nel 2013 ancora un premio “Il Pataca” come migliore interpretazione  da protagonista nel cortometraggio “La Prima Legge di Newton” di Pietro Messina e nel 2014, lo scorso anno, Premio alla carriera al Foggia Film Festival… Ho voluto evidenziare questi premi perché sono una costante incredibile nel tuo  curriculum e  sinceramente molto, ma molto imbarazzate. Tu come ti ci trovi?

Bene.

Credo che tu sia  consapevolmente e umanamente affascinato da tutto questo e da tutto quello che sei: ma quanto ti arriva da altrove e quanto è dovuto al sacrificio quotidiano?

Ora sta per finire.

Per chiudere (dobbiamo pur farlo… anche se non finisce qui): la poesia, l’arte, la cultura, il sociale, la politica e l’uomo che ne dipende, forse. Quali sono i valori che possono essere decisivi per un mondo migliore  o più semplicemente, capace di crescere?

Siamo una specie stupida. Facciamo quello che possiamo, ma in fondo sappiamo che non siamo ancora nati.

Progetti futuri e un modo per saperne di più di te e della tua compagnia Teatrale. E se vuoi un saluto particolarmente semplice e utile per i nostri lettori.

La politica culturale, specialmente a Roma, è affondata e affogata dai bandi dei burocrati. I politici si lavano così le mani o le riempiono d’altro. Il Ministero produce formule matematiche da incorniciare e mette al bando la qualità. Progetti? Con rabbia e caparbietà, io e Irma continuiamo il gioco della teatralizzazione della poesia che è cominciata nel 1978 con La Beat Generation e che ora è modello per tantissimi teatranti. A metà ottobre dovremmo debuttare con Nietzsche, tra Apollo e Dioniso in collaborazione con l’Università degli studi di Roma Tre e con Guerra! ‘15 – ’18 con la banda Musicale dell’Esercito Italiano. In futuro un Re Lear. Il teatro non è un’invenzione dell’uomo, il teatro vive da 0 a 5 anni quando siamo autentici. Lo spettatore viene a teatro a pagarsi il rimorso dell’infanzia perduta. Vi aspetto numerosi.

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