07/27/2024
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Eugenio Bennato

Taranta Power

Etnomusicologo, cantautore, taumaturgo della musica popolare, Eugenio Bennato fonda nel 1969 la “Nuova Compagnia di Canto Popolare”, il più importante gruppo di ricerca e revival della musica etnica dell’Italia del sud e nel 1976, insieme a Carlo d’Angiò, dà vita al gruppo “Musicanova”…

di Donatella Lavizzari

Compositore di molte colonne sonore per cinema, teatro e balletto, per le quali riceve importanti riconoscimenti, è da sempre impegnato in un’attività di sviluppo artistico-culturale del Sud, che lo ha portato a fondare nel 1998 “Taranta Power”, movimento che si pone come fine  la riscoperta della tarantella rituale attraverso le diverse forme artistiche e che ne vuole enfatizzare il potere quale strumento di liberazione individuale e di aggregazione sociale.

Nei suoi concerti musica, espressività corporea e danza si mescolano armoniosamente sfiorando la pièce teatrale.

Grazie all’intensità delle sue performance, Eugenio Bennato ci incanta con i sogni di un Sud in movimento e ci avvolge in una miscela preziosa di travolgente energia, ritmi, suoni e parole dalle sfumature variopinte: semplicemente irresistibile!

Ciao Eugenio, quanto sono importanti le radici culturali per te?

“Vado a ritroso nel tempo e ricordo quando da ragazzo ho iniziato a battere strade diverse per quanto riguarda la musica e la poesia. Seguivo il filo della bellezza, intendo dire il filo estetico, nel senso che avvertivo che andare ad ascoltare la musica degli antichi cantori del Gargano non significava compiere un gesto in qualche modo snobistico o intellettuale ma, semplicemente, seguire delle cose che mi prendevano emotivamente e si trattava di voci, ritmi, strumenti. Mi affascinava la bellezza di una melodia popolare che ritengo sia, mediamente, superiore, e riesca a toccare punte mai  raggiunte dalla musica classica. Seguivo quella strada e oggi la ritrovo, a distanza di decenni, in un mondo in cui quel valore è ancora più importante perché il dibattito generale, culturale e politico ideologico è sulla globalizzazione, l’appiattimento di tutto il mondo su un unico  modello, a partire da quello urbanistico per finire a quello musicale, linguistico e del tempo libero”.

La ricchezza sta, quindi, nella diversificazione, nelle differenze dei vari linguaggi?

“Sì, assolutamente, perché questo rappresenta il massimo della democrazia. L’alternativa è il prevalere di un modello sugli altri. E’ importante che ognuno manifesti la propria cultura. Un artista africano è interessante perché rappresenta la propria terra. Un artista italiano che canta in inglese la musica rock è un ibrido che, a mio parere, è destinato al fallimento. Io credo infatti che l’originalità oggi equivalga alla qualità e al bello”.

Mi piace molto la definizione di musica popolare data da Pasolini e cioè che serve a conservare l’Italia delle favole e delle lucciole, sei d’accordo?

“Sì, lo sono. Ho incontrato una sola volta Pasolini all’aeroporto di Linate a Milano. Ci guardammo ed io pensai: ‘questo è il mio maestro’. Speravo di rincontrarlo ma, purtroppo, non avvenne. Lui aveva un grande amore per il Sud, per la sua cultura ‘maledetta’. Per molti di noi è stato un punto di riferimento straordinario”.

Tu sei un ambasciatore della Musica popolare all’estero, sei da sempre socialmente e politicamente  impegnato a diffondere il Pensiero Meridiano, la tradizione, l’identità culturale di un sud per troppo tempo vittima della retorica rinascimentale, ce ne vuoi parlare?

“La premessa è che certe istanze che riguardano la rivendicazione di una verità storica non devono essere confuse con istanze separatiste perché, per scelta, non mi riguardano. Nella mia musica seguo un filo non vittimista anzi trionfalista. Mi piacciono le melodie, le arie che rappresentano gli orizzonti di paesaggi per certi versi disperati ma, comunque, favolosi”.

Frederick Nietzsche diceva “Senza musica, la vita sarebbe un errore”. Quanto ritieni sia importante stimolare l’interesse dei giovani alla musica ai fini di una formazione culturale e spirituale?

“Ritengo che la musica sia fondamentale nel processo formativo. La tamburellista, Chiara, che ha vent’anni e che ho da poco  coinvolto nel progetto Taranta Power, è un esempio straordinario di come i giovani vengano indotti dalla mia musica ad iscriversi alle scuole di tecnica strumentale popolare. Questo rappresenta il riscatto della cultura del Sud. Di pari passo si riscopre una storia diversa e si conoscono personaggi di grande fascino che sono stati classificati come ‘maledetti’, per esempio i briganti”.

Tu hai affermato che i tuoi brani dedicati alla contro storia sono una forma di manifestazione trasgressiva e che il brigantaggio era una rivendicazione sociale, ce ne vuoi parlare?

“Nel 1979 scrissi ‘Brigante se more’, brano che è diventato un inno per milioni di ragazzi. Era la prima voce che si levava dalla parte dei briganti, dei perdenti.

Parlo dei briganti al tempo dell’unificazione fatta con l’esercito piemontese, la prima grande globalizzazione. C’è una volontà di far conoscere la storia dell’Unità d’Italia, di quanto finora taciuto dalla storiografia ufficiale, sugli eccidi compiuti durante la cosiddetta lotta al brigantaggio, sugli squilibri tra nord e sud, su cui fu basata tutta l’economia del nascente Regno d’Italia, che hanno provocato, in seguito al depauperamento, una sorta di vittimismo e di abitudine all’assistenzialismo.

Credo che nella tua poetica sociale, nel senso dell’incarnare le voci dei più deboli, e nella tua musica ci sia un filo conduttore che riporta a Fabrizio De André. Cosa ne pensi?

“Non è la prima volta che mi viene detto e ciò mi fa molto piacere anche perché ho avuto il piacere di conoscere De André ma soprattutto perché l’ho amato come tanti ragazzi di allora e di oggi. Quello che mi stai dicendo lo prendo come un grande complimento. Sicuramente abbiamo molte cose che ci accomunano. Ci siamo incontrati molte volte e abbiamo vissuto delle cose insieme silenziosamente. Una volta accompagnammo Dori Ghezzi per un concerto in un paesino del casertano e passammo tutta la sera in giro e la cosa  divertente fu che nessuno ci riconobbe. Questo è uno dei tanti ricordi”.

 

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Valentina Vezzali
Emanuela Panatta

redazione@gpmagazine.it

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