04/16/2024
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I vasisculture di Sergio Ferrazza

Un artista poliedrico: pittore, scultore e maestro vetraio La sua è un’arte vissuta e in continua evoluzione.

di Marisa Iacopino

Ci sono mestieri che si collocano al confine tra l’arte e l’artigianato, meglio definibili “come mestieri d’arte”. Incontriamo Sergio Ferrazza, pittore, artista del vetro,  e corniciaio. Ci introduce nella sua bottega a Monteverde, dove tra quadri, cornici e vasi dalle forme scolpite nel vetro, ci parla di sé, del suo percorso professionale e umano.

“Da ragazzo mi sono diplomato in scenotecnica, e per qualche anno ho lavorato con entusiasmo nella realizzazione di scenografie teatrali. Poi, le difficoltà di farsi strada  in quell’ambito, mi hanno spinto a fare altro. Mio padre era vetraio, così ho deciso di seguire le sue orme. Mi sono buttato, però, maggiormente sulle cornici. Sto parlando degli anni ’60, quando il mercato in questo campo era florido. Nel frattempo dipingevo e partecipavo a mostre pittoriche, vincendo premi e guadagnandomi consensi. Ho fatto anche l’arredatore di negozi a Roma, e arredato a Capri un atelier per Diego della Valle. Inoltre, ho collaborato con un mio amico, Tonino Zera, sul set di film a Cinecittà. Dal 2010 ho ripreso a dipingere, trovando una mia vena che i critici hanno definita pop e mi dà grandi soddisfazioni, pur nella difficoltà  di essere artisti oggi, a Roma. Infatti, non ci sono luoghi dove esporre, e spesso ci si scontra con grossi ostacoli. Ho comunque fatto mostre un po’ ovunque, tra cui al Tempietto del Bramante”.

La sua è un’arte vissuta a tutto tondo, processo di creazione continuo, instancabile, quotidiano. Si definisce più pittore, scultore, o maestro vetraio?

“La passione per la pittura, per il disegno, è sbocciata fin da bambino. Devo averla ereditata da uno zio che era bravo disegnatore. Da ragazzo, ho intrapreso la scenotecnica per rimanere nel campo artistico. Ho sostenuto una tesi sulle vetrate artistiche di Roma. In quel tempo, ho conosciuto Avenali, Gigotti, Hajnal, i massimi autori di vetrate. Il professore disse a mio padre di farmi continuare a dipingere, perché avevo delle buone potenzialità. Ma poi, come dicevo, la vita mi ha  portato altrove. Non ho studiato la scultura classica, ma mi sarebbe piaciuto molto ‘aggredire’ la materia. A modo mio, lo faccio nel campo del vetro, elemento che conosco abbastanza bene da riuscire a piegarlo alla mia volontà. Essenzialmente, sono lastre piane di vetro soffiato di murano, di diverso colore e spessore che lavoro dandogli forma. Gli oggetti che escono sono quasi sculture”.

I suoi vasisculture si stagliano verso l’alto al pari di figure eroiche. Cos’è che la spinge a creare queste forme verticali, assimilabili come qualcuno ha detto, a grattacieli moderni o antichi obelischi? 

“Protendersi verso il cielo rappresenta sempre una vittoria. Forse è una mia peculiarità, quella di  spingermi verso l’alto, piuttosto che non piantarmi sulle superfici orizzontali”.

Ma lei si definirebbe più artigiano o artista, senza nulla togliere all’uno né all’altro?

“Artigiano che sfiora l’essere artista… perché in fondo gli artigiani di una volta, erano artisti. Salvator Rosa, ad esempio, era un pittore che faceva anche cornici. Per la precisione, era ebanista. O i pittori di un tempo, che lavoravano in botteghe artigiane occupandosi di qualsiasi cosa. La pittura è ovviamente una dote che si possiede, ma se il quadro lo vesti con una bella cornice fatta da te, completi l’opera”.

Nella sua  pittura sono presenti elementi classici che si coniugano  sempre con componenti moderni. Per esempio, colonne o anfore fuse con grattacieli. Perché questi accostamenti?

“Attraverso l’uso di tecniche miste, mi piace riprendere motivi classici accostati ad  elementi moderni, proprio per creare contrasti, e mettere in evidenza la diversità tra il passato antico e l’oggi metropolitano”.

L’oggetto artistico si delinea preventivamente  in testa, o è il materiale a suggerire la forma da dare all’opera?

“A seconda dei casi. A volte lo percepisco e quindi lo disegno. Altre volte, mentre sto lavorando, osservo i vetri e improvvisamente visualizzo nella mente una forma particolare. Da lì nasce l’oggetto”.

Nel mestiere dell’artista che modella la materia, o dipinge la tela,  le mani sono strumento manuale imprescindibile per compiere il progetto artistico. Ma c’è pure la sensibilità nel sagomare e incidere il vetro, o nel realizzare il quadro. Qual è il momento più magico di tutto il suo lavoro?

“Il momento clou è quando riesci a vedere che la cosa che avevi in mente, o avevi disegnato, prende forma. Insomma, quando ti accorgi che sei riuscito nell’intento di produrla. Orientativamente, è a metà dell’opera. Infatti, quando inizi a elaborarla non sei sicuro che venga bene. Il momento topico è proprio quando vedi che hai portato sulla tela, o nell’oggetto, il tuo pensiero”.

Ha frequentato artisti durante la sua vita professionale? 

“Sì, ho avuto contatti con molti pittori fin dalla giovinezza, soprattutto quando avevo il negozio in Prati. Gli facevo le cornici, e intanto ci scambiavamo pareri sull’arte. Devo confessare che a Roma mi conoscono in tanti”.

Sono in programma mostre personali, dopo quella del 2012 “Immagine simultanea” tenutasi a Roma?

“A settembre ci sarà un’esposizione a Napoli, alla Camera di Commercio, dove dovrei esporre i quadri che non siamo riusciti a portare all’Expo, in quanto non si è trovato lo spazio. Era una mostra dedicata a Leonardo, e uno dei miei quadri è la rielaborazione della Battaglia di Anghiari del grande Maestro”.

Per finire, si qualifichi con un colore. 

“Il magenta”.

E come definirebbe il color magenta?

“Un colore di presenza. Se c’è, si nota, ma non si impone. Un po’ come me”.

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Daniele Monachella:

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