04/19/2024
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Maximilian Nisi: “Tutto cominciò grazie a Giorgio Strehler”

Maximilian Nisi. Classe 1970. Si diploma nel 1993  alla Scuola del Teatro d’Europa diretta da Giorgio Strehler.

 

di Simone Mori

 

Nel 1995 segue il Corso di Perfezionamento per Attori, presso il Teatro di Roma, diretto da Luca Ronconi in collaborazione con Peter Stein, Franco Quadri e Federico Tiezzi. Studia inoltre con Marcel Marceau, Carolyn Carlson e Micha Van Hoecke, In campo teatrale è diretto, tra gli altri, da Strehler, Ronconi, Vasil’ev, Savary, Sequi, Scaparro, Terzopoulos, Calenda, Zanussi, Bernardi, Mauri, Lavia, Menegatti, Tchkeidze, Pagliaro, Lamanna, Znaniecki, Marini, Marinuzzi, Ricordi, Sepe. Nel giugno 1995  gli viene assegnato il “Lauro Olimpico” dell’Accademia Olimpica di Vicenza e nel novembre 1999  il premio Lorenzo il Magnifico dell’Accademia Internazionale Medicea di Firenze. In campo cine-televisivo è stato diretto, tra gli altri, da Magni, Negrin, Brandauer, Bibliowicz, Maselli, Spano, De Sisti, Argento, Greco, De Luigi, Zaccaro, Chiesa, Ponzi, Molteni, Migliardi, Sciacca, Riva, Pingitore, Sollima, Terracciano, Parisi, Inturri, Amatucci.

Il teatro è la tua vita. Come e quando hai compreso che lo sarebbe stato?

“In verità i primi anni non fui io a scegliere il teatro ma fu il teatro a scegliere me. Presi parte alle selezioni per l’ammissione alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano quasi per gioco. Dopo alcuni provini venni ammesso. Fu Giorgio Strehler, il mago dai capelli turchini, che mi scelse. La mia vita fu piacevolmente sconvolta. Io ero veramente poco consapevole di ciò che da quel momento in poi mi sarebbe accaduto. Mi trasferii a Milano e lì un gruppo di insegnanti, veramente illuminati, per tre anni si prese cura di me: mi insegnò a respirare, a camminare, a parlare. Furono anni difficili, pieni di stimoli meravigliosi. Lo studio fu intenso. Non mancarono le crisi profonde ma ci furono anche soddisfazioni grandissime. Strehler ci disse che dal diploma saremmo diventati degli ‘attori’ dopo dieci anni di lavoro continuativo. Sono trascorsi vent’anni dal termine del mio corso di studi, ho lavorato costantemente  – a volte meglio a volte peggio – e posso dire, secondo la tesi di Strehler, di essere diventato un attore a tutti gli effetti. Il teatro è la mia vita, è vero. Più passa il tempo e più mi rendo conto che è il primo pensiero della mia giornata e a volte anche l’ultimo. È una piacevole ossessione. Raccontare l’Uomo è una cosa complessa, non semplice, ma è un lavoro stimolante e molto creativo. Col passare del tempo sono diventato un po’ vile. Ho perso la meravigliosa e risolutiva incoscienza degli esordi e sono rimasto a fare i conti con me stesso, con la mia voce, con il mio corpo, con i miei gesti. Fino a prova contraria lo strumento del mio lavoro sono io. E così mi sono spesso sentito in debito nei confronti dei personaggi che ho interpretato: Edipo. Amleto, Cristo, San Francesco, per indicarne solo alcuni. Erano personaggi che esprimevano concetti alti, mossi da sentimenti a volte troppo elevati.  Dopo l’entusiasmo e l’urgenza di interpretarli in me restava un senso infinito di inadeguatezza”.

Hai interpretato moltissimi ruoli, spesso totalmente differenti l’uno dall’altro: come riesci a calarti nella parte e quali sono le maggiori difficoltà.

“Ogni volta è un viaggio. I personaggi vivono in un Olimpo che ci sovrasta. Molti sono gli attori che si trascinano i ruoli addosso. È una consuetudine molto italiana questa. Io ho sempre preferito elevarmi verso di loro. Ho sempre ritenuto i personaggi che andavo ad interpretare molto più interessanti di me. Adoro evadere da me stesso e perdermi in loro, vestirne i panni, condividerne i vizi, godere delle loro virtù. Prenderne la voce, le movenze. Ogni personaggio è un mondo a sé, ha un proprio ritmo e sempre potrebbe essere paragonato ad uno strumento. Ci si guarda da lontano, ci si studia, ci si frequenta per un po’. Si litiga, ci si scontra. Si impara ad amarsi o a criticarsi. Poi, accorciate le distanze, durante le rappresentazioni, finalmente si convive in modo più o meno civile. Infine giunge l’inevitabile distacco accompagnato dalla netta e appagante sensazione di essere più ricchi e più completi”.

La cultura in Italia viene spesso messa da parte, è maltrattata e mal gestita. Qual è il tuo punto di vista?

“L’Italia potrebbe vivere di cultura. È certamente una delle risorse più evidenti che abbiamo. Siamo unici nel mondo in questo settore. Ma siamo gestiti da persone che preferiscono cercare il petrolio e che si rifiutano di incentivare le reali potenzialità del nostro Paese. Un dato che fa riflettere è che paesi infinitamente più poveri dell’Italia da un punto vista artistico riescono a coinvolgere in percentuale, un pubblico molto più esteso grazie ad un’ intelligente opera di valorizzazione del loro patrimonio. La cultura porterebbe più crescita, più sviluppo, più occupazione, soprattutto giovanile. È una risorsa, non un costo. Purtroppo da molti anni non abbiamo una classe politica che sia ricettiva di fronte a queste problematiche e non comprende che spendere per l’arte non è una perdita ma un investimento. Siamo amministratori di una ricchezza sterminata, che alcuni esperti stimano pari al 70% del patrimonio artistico mondiale che non viene considerata. Situazioni di degrado come quella di Pompei, dove l’incuria è la superficialità delle autorità competenti sta depauperando gli inestimabili beni di quel sito archeologico, non dovrebbero mai verificarsi. Fondamentale sarebbe costruire un’educazione alla cultura più consapevole”.

La situazione specifica nel teatro invece com’è?

“Il teatro è una delle più affascinanti ed antiche forme d’arte, ma anche una delle più ignorate. C’è poco da dire, ci sarebbe moltissimo da fare. Necessitano mezzi economici ed organizzativi in grado di sostenere opere importanti e significative. La politica culturale degli ultimi anni si è rivelata poco risolutiva ed incentivante. I Teatri hanno accumulato debiti, gli sponsor privati (causa l’assenza di defiscalizzazione) non hanno mai realmente cominciato ad operare. Insomma siamo ad un punto fermo. Mi auguro che qualcosa di significativo accada. Manca il lavoro chiudono i teatri, altri vengono occupati. Insomma, non c’è molto da stare allegri”.

Diciamo che sei appena alla metà del tuo percorso lavorativo. Hai realizzato diverse cose. Che cosa ti hanno lasciato?

“Gli spettacoli sono figli. Legittimi, illegittimi, ma figli. Li ho amati un po’ tutti. Anche le collaborazioni peggiori a volte sono state molto formative, perché mi hanno insegnato cosa non voglio, cosa non desidero da un’esperienza artistica-lavorativa. Le esperienze migliori mi hanno invece reso sempre immensamente felice”.

Quali sono state le migliori in assoluto?

Ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Forse il ‘Billy Budd’ di Melville, con la regia di Sandro Sequi, il signore del Teatro. Ad oggi sono stato il primo ed unico Billy Budd in Italia. Eroe indiscusso di un libro che da adolescente ho amato follemente. Sono stato Edipo, diretto dal russo Vassil’ev. Anche quella è stata un’avventura avvincente, importante e decisiva. Forse ‘Visiting Mr. Green’ dell’americano Jeff Baron è stato lo spettacolo che in qualche modo mi ha coinvolto maggiormente. Questo per il rapporto di stima e di amicizia che si è creato con l’autore, per il grandissimo riscontro di pubblico e di critica avuto e non ultimo per il sodalizio artistico con Corrado Pani, padre, maestro, amico, figlio”.

Quanto serve l’incoraggiamento del pubblico? Cosa si prova alla fine di uno spettacolo, quando arrivano gli applausi?

“L’applauso è l’esternazione di un’approvazione, è il consenso di una o più persone. Mi dà gioia ascoltare lo scrosciare di quel suono forte e secco. Accanto alla gioia però c’è anche sempre un pizzico di imbarazzo. È l’unico momento in cui mi sento nudo di fronte al pubblico. Smessa la maschera del mio personaggio rimango io, su un palco di fronte a tanta gente che non conosco”.

Attore ma anche regista.

“Sì. Da un po’ di tempo ho deciso di dipingere le mie tele. Trovo grande interesse nel dirigere uno spettacolo. Grandioso è poter scegliere una pièce, selezionare con cura amorosa gli interpreti giusti per portarla in scena, immaginare una scenografia, dei costumi, predisporre degli oggetti, sognare delle musiche. Illuminare, raccontare. È capitato la scorsa estate con ‘Le memorie di un fanciullo’, monologo tratto dall’isola di Arturo di Elsa Morante prodotto dalla Compagnia del Barone Rampante per il Festival Teatrale di Borgio Verezzi. Capiterà di nuovo in gennaio per il Pila Pride di Aosta. Dirigerò e reciterò in un’opera di R.W.Fassbinder “Gocce d’acqua su pietra rovente” per la Compagnia A_Tratti_Brevissimi. Luca Terracciano, Caterina Fornaciari e Melania Genna saranno i miei compagni di gioco per un testo che sarà forte sia nella tematiche trattate che nelle immagini. Musiche originali di Francesco Forni”.

Vorrei sapere , secondo te,chi sono tra gli attori le eccellenze del teatro italiano?

“Maria Paiato, per la passione e l’energia. Elisabetta Pozzi, per il talento e la professionalità. Galatea Ranzi, per la bravura e l’eleganza. Massimo Popolizio, per l’istrionismo e l’ intelligenza scenica,  Kim Rossi Stuart, per l’anticonvenzionalità e per la sua naturale credibilità. Ma sono molti gli attori che mi intrigano e che seguirei con più entusiasmo se fossero impegnati in progetti, a pare mio, più stimolanti. Il mercato in Italia è spesso ovvio, poco interessante e veramente troppo ripetitivo”.

I consigli per i giovani che vorrebbero fare il tuo stesso mestiere? 

“Studio. Formazione. Passione. Motivazione. Cultura. Informazione”.

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