07/27/2024
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Faith XLVII: L’arte che fa parlare gli spazi vuoti

di Marisa Iacopino –

Un branco di giraffe o un unicorno che stanno per sfondare un muro decrepito, tigri o rinoceronti che avanzano lungo una parete scalcinata, e figure umane che si abbracciano, mani che cingono, pregano, che offrono. Questo e tanto altro nelle opere di Faith XLVII, l’artista di strada più nota del Sud Africa.   Una carriera interdisciplinare di fama mondiale.   Dal 2018 vive a Los Angeles con il figlio, anch’egli artista.

Sono decine e decine le opere che costituiscono veri musei a cielo aperto nel suo paese d’origine, oltre a quelle presenti in più di cinquanta città mondiali. E’ con grande piacere che l’abbiamo raggiunta, per rivolgerle alcune domande.  

Hai iniziato la tua carriera artistica nel 1997, all’età di vent’anni, dopo la fine dell’Apartheid. Che ricordi hai della tua adolescenza, dei conflitti sociali e delle lotte che poi avrebbero portato all’abolizione dell’Apartheid?

“Il Sudafrica è un posto incredibilmente complesso e non pretenderò mai di capirlo completamente, o di tentare di spiegarlo con parole goffe, per me è stato l’insegnante più saggio e più duro. Crescere in Sud Africa è qualcosa per cui sarò eternamente grata. Ti smuove un profondo crepacuore e grande sofferenza, ma anche un’incredibile generosità e sentimento. Mi ha mostrato, in giovane età, l’ipocrisia che esiste nella società; come l’ignoranza, dietro cui le persone si nascondono, abbia il potere di disumanizzare gli altri. Mi ha anche spinto a voler rompere con le norme sociali e trovare il mio modo di vedere ed essere nel mondo”. 

Le condizioni socio – economiche della popolazione sono cambiate in questi trent’anni?

“Sono profondamente, empaticamente consapevole delle questioni sociali e politiche che dobbiamo affrontare, e sono interessata a un pensiero basato sulla soluzione. Sento sofferenza ma ho anche una grande speranza. Da qualche parte, tra questi due sentimenti contrari, spero di poter creare”.

C’è spiritualità nelle tue opere. In un tuo libro, perché tra l’altro tu scrivi, affermi di cercare la tua anima nel vuoto, il tuo essere attraverso parabole di metallo e parti arrugginite. Porti la bellezza in luoghi dove gli altri vedono solo disprezzo e bruttezza. Gli spazi abbandonati hanno qualcosa di spirituale?

“Trovo nell’architettura un’eco. Creiamo edifici e ambienti che ci avvolgano e talvolta sono freddi e senz’anima [i centri commerciali americani per esempio]; altre volte sono grandiosi e ambiziosi [templi e cattedrali]. Ci sono storie e narrazioni negli spazi e negli oggetti con cui interagiamo e dove abitiamo. Quando le persone lasciano uno spazio, questo spesso diventa… vuoto. Ma non proprio vuoto. C’è ancora l’eco di chi c’era, le conversazioni. I manifesti sui muri, i resti della vita. Questo mi parla e voglio aprire una conversazione visiva. Amo lavorare nel contesto di uno spazio, perché posso in qualche modo connettermi a ciò che significa essere in un tempo e in uno spazio… raggiungere e toccare qualcosa che è vivo ma nascosto”.

Usi grafite, spray, pittura a olio, inchiostro, collage e fotografia. Tutti gli oggetti recuperati, i documenti scartati, così come i luoghi dimenticati, gli elementi e gli oggetti quotidiani che si mescolano e assumono un’importanza quasi sacramentale. L’Huffington Post dice di te: “un’artista sudafricana che dona all’ambiente urbano spiritualità e naturalezza. Incarna concretezza e trascendenza.” Cosa è sacro per te? 

“Ciò che è sacro per me è qualcosa che mi sono chiesta ultimamente: le persone che camminano al mio fianco nella vita, la terra che ci sostiene nonostante i grandi oltraggi che le imponiamo. Il mio respiro, il corpo, il mio spirito. Salute, saggezza, gratitudine. La capacità di creare e influenzare consapevolmente il mondo che ci circonda”.

Hai al tuo attivo, oltre a spazi urbani, gallerie e programmi espositivi in ​​progetti multimediali. Insomma, sei considerata un’appartenente alle arti visive e multidisciplinari. Ti sei trasferita a Los Angeles con tuo figlio. Pensi di spostarti ancora?

“Rimarrò a New York per i prossimi due anni. Attualmente sto cercando di capire e pianificare quale sarà il prossimo passo, il mio piano è avvicinarmi alla natura… alla natura selvaggia e cercare di allineare maggiormente la mia vita  con le mie convinzioni e comprensioni”.

Tuo figlio, Keya Tama, nato nel 1997 è anche lui un artista. Ha attinto alla tua arte per raggiungere la sua, o ha cercato la propria strada altrove?

“Keya è nato quando noi stessi eravamo solo adolescenti, quindi è cresciuto con me e i miei amici e veniva alle jam di graffiti. Mentre dipingevamo i muri gli davamo una sezione e pennelli per dipingere. Fin dal primo momento è rimasto in studio quando lavoravo e disegnava per ore. Keya è stato circondato da persone creative e selvagge sin dal primo giorno e, quindi, la sua evoluzione è stata meravigliosa da guardare; sono costantemente ammirata dalle sue inclinazioni naturali nel creare i pensieri, le parole e le immagini più belle”.

I tuoi progetti futuri

“In questo momento siamo nel pieno della produzione per una mostra personale al Musée des Beaux-arts di Nancy, in Francia. Apertura l’8 aprile 2023. Sono piuttosto eccitata per questo, perché il secondo piano della mostra sarà esclusivamente di opere sui nuovi media, quindi è davvero liberatorio poter presentare in questa direzione”.

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