07/27/2024
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JAGO: The Exhibition

di Marisa Iacopino –

Si è conclusa lo scorso 28 agosto a Palazzo Bonaparte un’importante mostra dedicata a JAGO, nome d’arte di Jacopo Cardillo. Curata da Maria Teresa Benedetti, scopritrice del suo talento, “JAGO, The Exhibition” ha aperto le porte il 12 marzo 2022, portando all’attenzione del grande pubblico un artista che in ambito scultoreo sta emergendo come uno dei più significativi nel panorama internazionale.

GP Magazine aveva avuto il piacere di intervistarlo già a novembre del 2018. In quell’occasione era stata evidenziata la straordinaria abilità artistica di questo giovane scultore. Sottolineata, inoltre, la sua genuinità e onestà intellettuale. Così, alla provocazione della domanda: “Tu affermi che il tuo sogno è quello di superare nell’arte scultorea Michelangelo”, la sua risposta: “Io parlavo di quel desiderio bambino di identificarsi con un grande della tradizione: seguire i passi di qualcuno per trovare la propria strada. Volerti paragonare è costruttivo, ma devi farlo con umiltà, riconoscere il tuo livello e cercare di eccellere. E’ chiaro che il paragone è insensato: Michelangelo ha vissuto le dinamiche del suo tempo. Io vivo il mio tempo, mi piace però mantenere vivo dentro di me quel bambino che vuole continuare a crescere. Per farlo, bisogna darsi dei punti di riferimento.”

E lui, artisticamente, non ha davvero smesso di crescere.

Lo avevamo lasciato sul busto marmoreo ‘Habemus Papam’, raffigurante Benedetto XVI, divenuto ‘Habemus Hominem’ e spogliato di ogni paramento liturgico dopo l’abdicazione del Pontefice.

Oggi, percorrendo simbolicamente la strada del suo successo attraverso le stanze espositive di Palazzo Bonaparte, rileviamo la maestria che ne ha decretato la grandezza artistica. Così, lo ammiriamo nelle opere monumentali quali “Il figlio Velato”, realizzata in un unico blocco di marmo, e donata alla Chiesa di San Severo fuori le mura, nel rione Sanità di Napoli. Da sotto il soffice panneggio, magistralmente sottratto alla durezza e resistenza del marmo, gualcito dal ritmo tormentoso delle pieghe,  traspare lo strazio di un bambino. Emblema di tutte le vittime innocenti dei nostri giorni. 

Altra mirabile scultura, ‘Pietà’, che ripropone l’episodio evangelico in una versione moderna e a canoni rovesciati. Qui, non troviamo il Figlio morto,  ma una giovane donna il cui corpo è abbandonato esanime tra le braccia del padre. Il volto dell’uomo visibilmente toccato dal dramma della perdita, diviene allegoria di tutta l’umanità sofferente. 

Continua la genialità di Jago, e noi spettatori attoniti proseguiamo attraverso le varie stanze, finché ci imbattiamo in “Venere”. Il corpo marmoreo di questa donna in età avanzata colpisce particolarmente il visitatore. Non c’è più nulla del fascino giovanile, la decadenza del fisico ben lontana dal ricordo degli attributi che ne decretarono la femminilità seducente. Anche il capo s’è ridotto a una testa calva che non ha più bisogno dell’orpello pilifero. Eppure, non possiamo dire che sia tramontata la sua grazia. E, sovvertito il concetto di bellezza, ammiriamo l’atteggiamento pudico e fiero insieme di questa vecchia che si copre, ma non si sottrae allo sguardo curioso dello spettatore. 

Altri lavori dalle mani abilissime di Jago: “Memoria di sé”, testa che possiede le sembianze del suo autore, e dalla cui calotta cranica nasce il suo stesso embrione; o “The first baby”, prima opera scultorea a essere inviata sulla Stazione Spaziale Internazionale, in occasione della missione Beyond dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA)

Terminata la mostra, veniamo spinti da un visitatore ad ammirare ancora una creazione dello geniale Jago. Si tratta dell’opera itinerante, “In flagella paratus sum”.  

E’ una torrida domenica di fine agosto, e il corpo vorrebbe cercare qualche recesso ombroso. Ma lo spirito che anima la fame di arte e conoscenza, non ne vuole sapere e guida i passi verso Castel Santangelo. Per stemperare il caldo, una pausa per comprare una bottiglietta d’acqua, poi continuiamo lungo Corso Vittorio Emanuele. Arrivati al ponte che conduce al grande complesso monumentale, veniamo ripagati della fatica.  Da lontano, sul lastricato, scorgiamo un fagotto dalla sagoma umana. Ci avviciniamo, e gli occhi si sperdono in quell’involucro di carne pietrificata. In marmo nero italiano a grandezza naturale, un pellegrino giace, migrante vittima di un’ospitalità tradita nella sua essenza.  Sono pronto al flagello, il titolo tradotto dell’opera. E, puntualmente, il corpo scolpito è stato flagellato, la mano destra spezzata di netto e trafugata. 

Finisce così questo pomeriggio romano di tarda estate, con la desolante scoperta che pure nel marmo come nella carne, l’atto vandalico o xenofobo di certuni non s’arresta. Questo però ci convince che l’oscurità della barbarie si combatte anche con la ricerca della bellezza, e magari proprio l’arte ci salverà. Perché è ormai assodato che se il corpo si nutre di cibo, l’animo si sfama di cultura. Per sopravvivere alla disperazione, per accendere la luce della speranza. 

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